L’identità del territorio, tra marketing, sogni e risorse


Quando parliamo della Maremma, ci dimentichiamo spesso di un elemento fondamentale: le emozioni che riesce a suscitare.
È questa la sua risorse più vitale

Detto in due parole, a mio avviso, l’elemento più emotigeno del territorio delle Colline del Fiora/Città del tufo è la compresenza di emergenze archeologiche immerse in una natura splendente ed incontaminata. Se ti inoltri a piedi o a cavallo, in mezzo a forre, boschi, pianori e calanchi, all’improvviso ti trovi di fronte a testimonianze della vita dei nostri progenitori. Oppure ad incredibili squarci paesaggistici, disconosciuti nel loro valore. Un valore che aumenta in modo esponenziale laddove essi vengono integrati con gli altri fattori attrattivi di “questa terra di lupi e di cinghiali, ma angolo di ristoro nel corso affaccendato della vita”, come poeticamente di essa parla la scrittrice inglese Margaret Mazzantini.

Non ci vuole l’intelligenza di un genio per comprendere che la definizione consensuale dell’identità di un territorio, correlata alle sue risorse, è il primo ineludibile passo nella gerarchia dei processi decisionali per una pianificazione sapiente del suo utilizzo. Essa, l’identità territoriale, pone i “paletti” all’interno dei quali deve essere gestita all’insegna del perseguimento del Bene Comune. Paletti che tracciano un percorso ottimale quale punto di riferimento concettuale ed emotivo dell’operato di tutti i suoi abitanti: in primo luogo, dei suoi rappresentanti politici, amministrativi e tecnici e, parallelamente, dei suoi cittadini per le loro scelte grandi e minute, che trovano nell’identità territoriale lo strumento di controllo dell’operato di ognuno.

Al volo cito quattro fattori derivanti dalla prioritaria messa a fuoco dell’identità territoriale correlata alle risorse esistenti nel tempo storico in esame:

1) l’individuazione della categoria di turisti che cercano proprio le nostre specifiche risorse da cui deriva l’imperativo del loro potenziamento, del loro utilizzo e della loro salvaguardia. I nostri turisti costituiscono un target di persone che amano svolgere le loro attività in contesti suggestivi dal punto di vista naturalistico: per fare trekking, leggere, cavalcare, scrivere, dipingere, fotografare, scolpire, curare il benessere fisico e psichico, esprimersi creando. È una categoria di persone del ceto medio-alto che si sposta in tutti i mesi dell’anno: l’esatto contrario dei nostri vacanzieri del mese di agosto;

2) la creazione di nuovi posti di lavoro, derivanti dalle nuove ipotesi di impiego del territorio, sostitutivi di quelli obsoleti e magari devastanti irreversibilmente lo stesso: con danno di tutti, nel presente e nel futuro;

3) l’evitamento dell’insediamento di attività industriali (penso alla geotermia ad alta entalpia ed alle discariche incontrollate di rifiuti tossici) che danneggiano irreversibilmente la salubrità del nostro territorio e dei suoi preziosi prodotti agroalimentari. Sono attività contro le quali i cittadini sono poi costretti a scendere in campo, con dispendio di energie e danno alla qualità della loro vita individuale e di relazione;

4) il rispetto rigoroso della tempistica nella realizzazione dei progetti correlati alla identità territoriale chiaramente definita: nella tutela del ritorno degli investimenti nonché dell’identità umana, economica e professionale degli investitori. Voglio qui ricordare che, per la scienza del project management, un progetto è giudicato fallito se non viene rispettata la tempistica prevista per la sua realizzazione. Basti pensare agli investimenti dei portatori di idee innovative. Investitori qualificati che non hanno avuto alcun ritorno – con danno per tutti – dai loro investimenti, sebbene le loro proposte centrassero in pieno l’obiettivo del Bene Comune grazie alla valorizzazione di risorse latenti inutilizzate sia per mancanza di competenze che di visione strategica degli organi responsabili.

Ecco esempi sconvolgenti di errori strategici: se avessimo compreso l’importanza di due fattori primari costitutivi l’identità di questi “luoghi di natura e cultura”, quello della pastorizia e quello dell’archeologica – poeticamente compresenti nelle nostre terre antiche – sono certa che avremmo saputo intervenire a difenderli, prima che subissero la depauperazione nel passato e quella occhiuta, criminale, del presente: tutt’ora in corso. Da parte dei nostri politici, il lasciar definire la provincia di Grosseto un luogo adatto a mantenere il “lupo in purezza”, per “arricchire di fascino” queste terre, è stata una delle operazioni più sciagurate che siano mai state compiute. Lascio ad altri il dolore e l’indignazione di parlarne ancora.

Voglio però qui dirlo chiaramente: la più grande rapina di quanti agiscono un incontrollato potere decisionale, a proprio esclusivo vantaggio, è proprio quella che riguarda la destinazione d’uso del territorio dove la relazione tra la società civile e la politica è diventata una “relazione di scambio” invece che una relazione di rappresentanza con scelte operate in base a criteri meritocratici, secondo le reali competenze degli aspiranti tecnici e assessori. E questo avviene nella sistematica e criminale svendita di legalità che si consuma a spese della cosa di tutti, nella millenaria acquiescenza di un popolo cui è stato garantito il paradiso in cambio della sua sottomissione ai detentori del potere: chierico o laico che sia, ma da sempre uniti all’insegna dei vantaggi temporali del potere fascista del forte sul debole: alla faccia della democrazia!

Per quanto è ancora possibile salvaguardare, il nostro compito è quello di onorare la bellezza dei feudi e delle contee che Aldobrandeschi, Orsini, Medici, Lorena, Sforza avevano arricchito di rocche, mura, casseri, maestose fortezze e castelli. Strutture abitative o monumentali che nelle secolari generazioni successive abbiamo smantellato per predarne i materiali o lasciato andare in rovina senza capire il valore della loro perdita, del lutto che arrecavamo all’intera umanità. Quella che viene da lontano, che attraversa gli oceani per venire a vedere, da vicino, le vestigia nel nostro comune passato. Da cui respirare lo spessore identitario di questa nostra umanità folle e dolente che sa progettare di andare a vivere in altre galassie ma che è incapace di badare a se stessa qui, in questa, in cui trascorre i suoi giorni.

Di recente mi ha attraversato la mente questo pensiero: che se è stato un danno per l’Italia il ritardo nella sua unità politica – tuttora da compiere appieno – la frammentazione del territorio in feudi, comuni, signorie e principati, è valso ad adornarli dello splendore delle dimore patrizie dei suoi lontani padroni, in quantità tale come non si trova in nessun altro paese al mondo. Al confronto, non dimentico lo smarrimento che provai un giorno, durante una vacanza a cavallo in Irlanda, quando mi ritrovai su una alta scogliera a guardare in basso le onde che s’ infrangevano contro gli scogli. Alle mie spalle avevo gli altri cavalieri. Ma io mi sentii sola, un microatomo dell’infinito estraneo universo, sola con quel mio animale di cui avvertivo il respiro, a sentire la necessità violenta di stare in mezzo al calore delle testimonianze di vita dei miei simili. E sentii povera, fredda, tanta bellezza del creato, perché priva delle tracce di vita umana.

Così capisco molto bene gli stranieri, abitanti in paesi di recente costituzione, che impazziscono di fronte alle vestigia etrusche del nostro passato. Perché esse danno spessore identitario a noi uomini di questo secolo così come ne daranno a quelli dei secoli a venire. Toccarle con mano, guardarle da vicino, è l’unica “prova” emozionante, concreta, tangibile che abbiamo del fatto che altri esseri umani siano esistiti prima di noi. È questa l’emozione che vogliono vivere in questi luoghi, sacri di religiosità, gli stranieri che vengono qui a visitarli. Visitiamoli, meglio, anche noi, per averne amorevole cura.

Lucia Morelli è psicologa e counselor.