Due o tre cose che so di lei (della Maremma)


In genere tutte le terre difficili sono abitate da gente tenace e fiera, è un dato di fatto incontrovertibile, e l’ambiente grossetano, in particolare la Maremma, non fanno certo eccezione.

Della gente di Maremma dipinge bene le caratteristiche l’imperatore Ludovico il Bavaro partendo da Grosseto verso Pisa, all’indomani della sua sconfitta nell’assedio del 1328, dopo che la città non gli aveva aperto le porte in segno di sottomissione e gli aveva resistito per 4 giorni di duri scontri:

“uomini maledetti, nefandi, figliolanza di vipere e serpentacci tortuosi, discendenza pestifera, schiatta velenosa, cani rivomitatori e porci rivolgentisi nel brago, attossicata genia, generazione inflessibile e più dura del macigno, grossolani come il loro nome, non piegabili né per blandizie, né per minacce “

Vivere nel grossetano non è mai stato facile, storicamente vi è stata sempre una densità di popolazione molto bassa, ed è tuttora una delle province italiane con il minor numero di abitanti per kilometro quadrato; per le sue caratteristiche climatiche è sempre stata una terra parca di produzioni agro zootecniche, gli etruschi l’abitavano soprattutto per la sua posizione strategica e per la vicinanza alle miniere di ferro dell’Elba e delle colline Metallifere, ed è noto che in quel periodo della storia il clima della penisola fosse molto più adatto di oggi alle produzioni agricole.

Quando poi con l’avanzare della foce dell’Ombrone il lago Prile si è trasformato in zona paludosa, vivere in Maremma è diventato ancor più problematico per la presenza della malaria e lo è rimasto fino a molto tempo dopo gli interventi di bonifica avviate dai Lorena.

Tutt’oggi praticare in Maremma agricoltura e allevamento è molto impegnativo e con margini di guadagno limitati dalla concorrenza di paesi con costi di produzione molto più bassi e da difficoltà intrinseche al territorio ed alle sue caratteristiche.

Inoltre, negli ultimi 20 anni, i frequenti episodi di aggressione alle greggi hanno provocato livelli di forte criticità ed un vero e proprio scontro tra gli allevatori da un lato e le istituzioni e gli ambientalisti dall’altro, ed un dialogo costruttivo tra le parti è stato ancor più difficile a causa di una parziale o talvolta errata conoscenza dei termini della questione.

Per amor del vero, e della Maremma stessa, è giusto cercar di ridefinire alcuni aspetti che riguardano le produzioni agricole e zootecniche di questo territorio e di alcuni selvatici che lo popolano.

La zootecnia nella provincia di Grosseto nella prima metà del Novecento

Con l’Unità di Italia nel 1861 in provincia di Grosseto vengono censiti circa 90.000 abitanti, quindi meno della metà degli attuali 220.000, che sono concentrati in particolare nei paesi e nelle fattorie delle zone collinari, soprattutto per difendersi dalla malaria e come effetto del retaggio delle razzie saracene che avevano colpito gli insediamenti delle fasce costiere maremmane fino al 1800.

Solo con i primi anni del ‘900, con la progressiva riduzione delle aree paludose e con la conseguente, se pur lenta, diminuzione della malaria, la popolazione della provincia ha cominciato a spostarsi dalle aree collinari verso le zone di pianura; nello stesso periodo la maremma grossetana, per la sua bassissima densità di popolazione, comincia ad essere oggetto di immigrazione da altre regioni italiane e quindi comincia ad aumentare la popolazione provinciale.

Non sono presenti insediamenti manufatturieri e ad eccezione di alcune zone con attività estrattiva di minerali ferrosi e di mercurio, la popolazione è dedita all’agricoltura, ma le condizioni climatiche e territoriali, nonché la forte presenza del latifondo ne limitano le dimensioni produttive, impediscono che possa assumere caratteristiche di intensività e di fatto la relegano a funzioni poco più che autarchiche, in particolare nelle zone collinari, questo in particolare per l’allevamento del bestiame.

In effetti il territorio della provincia di Grosseto ha un clima che non lo ha mai vocato alle attività zootecniche, ancor meno con i cambiamenti climatici degli ultimi anni; la scarsa piovosità, peraltro concentrata in eventi sporadici e talvolta violenti, non favorisce la produzione dei pascoli e delle colture destinate all’alimentazione del bestiame, aumenta in maniera considerevole il costo delle unità foraggere, rendendo così non competitivi sui mercati i prodotti della zootecnia, in particolare il latte e la carne.

Per questi motivi fin dal XIX secolo e per buona parte del XX l’allevamento bovino non ha avuto un grande rilievo nella provincia di Grosseto, è rimasto limitato alle grandi proprietà di latifondo della nobiltà fiorentina, senese e romana, dove le mandrie di razza maremmana servivano soprattutto alla produzione di bestiame da lavoro e solo in minima parte per la produzione di carne; assente la produzione di bestiame da latte. Gli insediamenti agricoli mezzadrili erano dotati raramente di bestiame bovino, se non i pochi capi destinati al lavoro nei campi; in queste realtà erano presenti pochi ovini e pochi suini destinati soprattutto all’autoconsumo poderale od al mercato locale.

Come si vede siamo lontani dalle realtà zootecniche dei contesti toscani (province di Pisa, di Arezzo, di Siena, Mugello), ma soprattutto dei contesti italiani, come il piemontese, il lombardo, l’emiliano-romagnolo, realmente vocati alla zootecnia già dai secoli precedenti; di conseguenza siamo lontani dalle grandi tradizioni degli allevamenti estensivi ed intensivi e dei relativi complessi know-how tramandati di generazione in generazione di allevatori.

I cambiamenti del territorio indotti dalla Legge di riforma fondiaria

Con la Riforma fondiaria del 1950 gran parte del latifondo della provincia di Grosseto viene ripartito in quote poderali da concedere agli assegnatari; il gran numero di richieste da soddisfare obbliga spesso a ricavare quote piccole, specie nelle zone collinari, quindi a disboscare le parti più declivi delle colline dell’entroterra per destinarle alle coltivazioni, soprattutto cerealicole.

Ad ogni assegnatario vengono consegnati, insieme alla quota poderale, anche alcuni capi bovini da allevare pe carne e per il lavoro nei campi, essendo ancora lontana la completa meccanizzazione dell’agricoltura; in genere nei poderi di collina gli assegnatari si dotano di alcuni capi ovini per integrazione del reddito e per autoconsumo e di alcuni capi suini, da ingrassare anch’essi per consumo familiare o per la produzione di porchetti che vengono avviati ai grandi allevamenti da ingrasso dell’Emilia Romagna.

Nell’arco di un decennio si delineano alcuni limiti di una Riforma, che pur aveva segnato una svolta nello sviluppo agricolo del Paese ed anche del territorio grossetano: la ripartizione dei terreni aveva creato quote  in molti casi insufficienti a garantire una produttività adeguata, così come una gran parte degli assegnatari si rivelò non dotata delle conoscenze e delle capacità di gestione di un allevamento zootecnico, se pur di limitate dimensioni; i coloni si accorgono che nelle quote collinari la produttività delle colture di cereali non garantisce sufficiente reddito.

Nella provincia di Grosseto, già dalla metà degli anni ’60 una buona parte degli assegnatari comincia ad abbandonare l’allevamento dei pochi capi bovini originariamente assegnati, mentre quelli più dotati di conoscenze zootecniche e titolari di terreni più adatti, anche per dimensioni, cominciano ad incrementare il bestiame allevato ed iniziano a costituire allevamenti da latte; nelle zone collinari progressivamente viene abbandonata la coltivazione di cereali e i terreni che erano stati disboscati per tale scopo, vengono convertiti in pascoli spontanei, dove è incrementato l’allevamento di ovini, che negli anni a seguire in parte si trasformerà da integrazione poderale per autoconsumo a vera e proprio attività produttiva, soprattutto di latte.  Si modifica di nuovo l’aspetto del territorio, soprattutto dell’ambiente collinare, che era già stato sottoposto a importanti modifiche al momento dei disboscamenti conseguenti alla Riforma fondiaria.

E’ così che negli anni ‘50 e negli anni ’60  la zootecnia grossetana incrementa la sua presenza e sale quasi ai livelli di quelle delle province di Pisa, Arezzo, Firenze e Siena; il regime di sostegni all’agricoltura che lo Stato assicura in quegli anni in varie forme maschera i problemi strutturali dell’allevamento nel territorio: incidono in modo significativo sui costi di produzione e quindi sui margini di reddito il clima, la piovosità, l’insufficiente formazione degli addetti, cui mancano vere tradizioni nel settore e che si sono perlopiù  improvvisati nelle attività agricole al momento della riforma.

Il regime di aiuti della Comunità europea si sostituirà poi a quello nazionale e continuerà a proteggere i problemi della zootecnia grossetana, sostenendo artificialmente le produzioni, peraltro intervenendo in modo limitato sulla formazione e sulla crescita professionale degli addetti.

Abbandono delle campagne

Nella seconda metà degli anni ’60 la generazione che subentra ai primi assegnatori della Riforma fondiaria si adatta con difficoltà al lavoro in agricoltura e soprattutto alla vita isolata nelle unità poderali, scelta di base della Riforma che si rileverà forse il suo più grosso limite. Si cerca lavoro nei centri urbani della provincia che vedono così aumentare il bisogno di alloggi e questo richiama ulteriormente dalle campagne manodopera per l’edilizia; vengono abbandonate le unità poderali collinari e quelle che per caratteristiche e dimensioni non sono in grado di assicurare un buon rapporto reddito/impegno lavorativo.

Per le stesse motivazioni (scarso reddito, isolamento sociale) nelle zone dell’alta collina alle pendici dell’Amiata entra in crisi il sistema della mezzadria, unica alternativa al latifondo prima della Riforma agraria, di conseguenza molti poderi rimangono vuoti e le loro quote di terreno inutilizzate.

Gli appezzamenti collinari che erano stati disboscati ed assegnati con la Riforma e poi abbandonati dai mezzadri o quelli non coltivati dai loro piccoli proprietari si mostrano adatti al pascolo, anche se sono evidenti i limiti dovuti ad un regime delle precipitazioni che non si sposa con elevate produzioni; è un contesto territoriale e climatico che sembra tagliato su misura per gli ovini di razza sarda ed infatti inizia una “colonizzazione” di ampie zone collinari da parte di pastori sardi, che assume via, via dimensioni sempre più importanti.    Con gli anni ’70 la produzione di latte ovino e dell’agnello leggero diviene sempre più redditizia e consente ampi margini di guadagno a chi vi si dedica; di conseguenza si incrementa notevolmente la presenza dell’allevamento ovino, che dai micro-greggi poderali destinati al consumo familiare e poco più, si trasforma in vere e proprie aziende zootecniche di esclusivo allevamento ovino.  La redditività della pastorizia in quel periodo consente anche l’acquisto dei pascoli che inizialmente erano usati in affitto e addirittura di aziende intere; diviene importante la presenza della comunità sarda che si adatta facilmente ad un territorio e ad una vita agreste con caratteristiche molto simili a quelle dell’isola da cui proviene, ma che soprattutto possiede il complesso know-how indispensabile ad una vera zootecnia di produzione, che si tramanda e custodisce da generazioni.  Inoltre, l’assenza pressoché totale dell’abigeato rende senz’altro meno impegnativa la custodia delle greggi, che possono essere lasciate libere di pascolare sui terreni di proprietà o in affitto senza una guardiania, di giorno e in estate anche di notte.

Si instaura un ciclo virtuoso, per cui l’aumento della produzione di latte ovino, ed in parte di quello bovino,  stimola la nascita di nuove industrie di trasformazione, una parte di tipo cooperativo, che più o meno direttamente godono di importanti aiuti pubblici, e alcune delle quali con forte capacità produttiva ed anche commerciale; inoltre la richiesta di materia prima da parte di questi stabilimenti stimola l’incremento del numero di allevamenti presenti in provincia e l’ampliamento di quelli esistenti.

Ma rimangono intatti i problemi di fondo collegati alla scarsa vocazione del territorio alla zootecnia, soprattutto per il clima che lo caratterizza, in particolare la piovosità; con la mancata realizzazione del bacino idrico del Farma Merse viene perse l’unica occasione per intervenire con una mitigazione dei problemi di scarsa e soprattutto discontinua piovosità dell’intera fascia di bassa collina e pianura del comprensorio provinciale grossetano.

Soprattutto la costante diminuzione della consistenza degli aiuti pubblici e l’allargamento del mercato europeo con la costituzione della UE hanno portato e tuttora portano la fragile zootecnia maremmana a scontrarsi con le dure leggi del mercato, per alcune produzioni anche in modo drammatico, con una forte riduzione dei margini di reddito.   In particolare, il settore ovino locale si scontra con una normativa europea che regolamenta in modo puntuale vari ambiti dell’allevamento, in particolare i sistemi di identificazione, di tutela del benessere degli animali, dell’igiene delle produzioni, che sono di difficilissima applicazione in aziende dove gli animali pascolano bradi o semibradi e che le penalizzano in modo durissimo. 

La presenza degli animali selvatici in provincia di Grosseto

Grazie alla scarsa densità di popolazione ed alla presenza di estese zone boschive e di macchia mediterranea la Maremma grossetana e le zone collinari del suo entroterra sono da sempre state ricche di selvaggina di ogni tipo, che ha sempre vissuto in un ottimale equilibrio tra ambiente e le varie specie, che nel tempo si erano selezionate in varietà compatibili con un ambiente avaro, non proprio largo di risorse alimentari.

Alternativamente la selvaggina è stata considerata res nullius (periodo della Roma repubblicana, imperiale ed alto medioevo, Granducato di Pietro Leopoldo di Lorena, periodo napoleonico) cioè proprietà di nessuno in particolare e quindi a disposizione di chi se ne appropriava con la caccia, e res principis (medioevo, periodo della signoria dei Medici, periodo Restaurazione) cioè proprietà del signore che era titolare delle attribuzioni feudali del territorio, poi ancora res nullius con Pietro Leopoldo di Lorena. Questa discontinuità, oltre allo stato di bisogno delle classi meno abbienti, sono le cause del diffuso fenomeno del bracconaggio, che si può considerare una caratteristica costante nella storia del grossetano, come di tante altre zone a basso reddito della penisola, rappresentando un’importante integrazione della dieta, in particolare dei suoi abitanti dediti all’agricoltura, in genere povera.

Invece la caccia, sia di specie stanziali che di specie migratorie, ha costituito da sempre passatempo esclusivo, dapprima per la classe nobiliare che dominava il territorio, poi per le famiglie delle grandi casate fiorentine, senesi e romane; dalla seconda metà del ‘900 la Maremma è divenuta meta di appassionati della caccia, che era nel frattempo divenuta fenomeno di massa, perdendo gran parte delle sue caratteristiche elitarie.

Fino alla metà del ‘900 sia il bracconaggio che la caccia, proprio per le dimensioni del prelievo di capi, non hanno di fatto avuto impatto di rilievo sull’equilibrio tra le varie specie selvatiche e tra queste ed il territorio; invece gli interventi dei cacciatori di lupi, che da sempre hanno operato dal basso medioevo lungo la dorsale appenninica, dall’inizio del ‘900 cominciano a creare un impatto sempre più forte sull’equilibrio predatore/prede, impatto che dagli anni ’70 in poi diventa la causa principale per il marcato squilibrio che si osserva oggi nei mammiferi selvatici che popolano la provincia di Grosseto.

Invece con gli anni ‘50 questo equilibrio viene incrinato dall’uomo, che interviene sulla selvaggina dell’ambiente della maremma costiera e collinare non solo con un imponente prelievo di capi, ma anche con operazioni che avranno conseguenze molto pesanti su di un ecosistema tutto sommato fragile, dove il rapporto tra le varie specie si basa su delicati rapporti.

La scomparsa del lupo, predatore all’apice della catena alimentare, l’abbandono delle insediamenti poderali delle aree collinari e montane, la creazione di aree protette e l’immissione sul territorio di cinghiali alloctoni da parte di gruppi di cacciatori organizzati ha provocato un incremento continuo di cinghiali, caprioli e daini, imponente già dalla la fine del secolo scorso; peraltro la caccia a caprioli e daini comporta difficoltà non indifferenti e non facendo parte della tradizione venatoria grossetana, conta pochissimi praticanti.

Oggi è sproporzionata al territorio la quantità di cinghiali ed anche di caprioli e daini e oramai da anni tale presenza è sopra la soglia di saturazione delle capacità dell’ambiente maremmano, che ne risulta progressivamente sempre più danneggiato; sono sempre più importanti i danni alle colture del territorio, che spesso hanno limitati margini di reddito, per i motivi già descritti, ed inoltre si è costituito un serio e subdolo pericolo per la sicurezza della circolazione stradale, con incidenti che sono in costante crescita.

La diffusione della caccia al cinghiale ed il ripopolamento con cinghiali di razze allogene

La caccia al cinghiale è praticata da sempre nella maremma grossetana, con varie modalità, in pratica tutte mediante l’indispensabile ausilio dei cani da seguito, salvo quella effettuata con appostamento, che è quasi esclusività del bracconaggio. Nel medio evo, fino all’avvento delle armi da fuoco il cinghiale veniva individuato e braccato dai cani, cui facevano seguito i cacciatori a cavallo, in genere armati di lancia, oppure si attendeva il cinghiale in fuga appostati in passaggi obbligati e armati di archi; con l’avvento delle armi da fuoco si è diffusa molto la modalità della battuta, con cani e battitori che spingono la selvaggina verso passaggi determinati dove sono appostati i cacciatori armati, in particolare nelle cacciate organizzate per il divertimento della classe nobiliare, nelle grandi proprietà di latifondo.

In particolare, dalla seconda metà del 1700, con l’apertura della caccia a tutta la popolazione, concessa da Pietro Leopoldo di Lorena, si diffonde tra i ceti meno abbienti la cacciata a piedi, con i cacciatori accodati a pochi cani impegnati sulle tracce dei cinghiali; questo sistema, praticato nelle macchie collinari, come l’aspetto all’abbeverata, ha lo scopo di arricchire la dieta di proteine a basso costo.  

Preda di queste cacce è il cinghiale maremmano, varietà podolica del cinghiale europeo sus scrofa, caratterizzato da dimensioni ridotte, estrema diffidenza per l’uomo e l’ambiente che quest’ultimo frequenta, scarsa prolificità, che addirittura si annulla automaticamente con la sospensione dei calori delle femmine nelle stagioni siccitose con scarsa disponibilità di alimento.  Per le sue caratteristiche il cinghiale maremmano è una preda difficile, è molto mobile e sa sfruttare molto bene le basse macchie maremmane per sfuggire ai cacciatori. In genere nelle cacciate si riesce ad abbattere un numero molto limitato di animali in quelle ad appostamento e, ancor meno, in quelle ad inseguimento.

Con la grande diffusione delle caccia del secondo dopo guerra, conosce altrettanta popolarità la caccia al cinghiale; negli anni ’50 si cominciano ad organizzare nelle tenute degli ex latifondi maremmani grandi cacciate in appostamento che vedono la partecipazione di decine e decine di cacciatori; al contempo cominciano a formarsi associazioni venatorie locali che iniziano ad organizzare la venazione al cinghiale anche nelle zone collinari.

Per garantire sufficiente disponibilità di prede sorgono le zone di ripopolamento, ambiti territoriali aperti, dove sono facilitate le condizioni di vita delle femmine di cinghiale, soprattutto ricorrendo ad una cospicua integrazione alimentare, attuata soprattutto per garantire un buon livello di prolificità annuale.

Ma si pensa di poter far di più, e purtroppo viene fatto, creando i presupposti per un disastro ecologico che negli anni dimostrerà sempre più le sue proporzioni. Nelle zone di ripopolamento vengono introdotti esemplari di cinghiale importati dalle foreste dell’est europeo; animali di grande stazza, molto prolifici, meno selvatici della varietà maremmana e, ovviamente, abituati a regimi alimentari rilevanti, che invece la macchia delle colline del grossetano gli assicura solo in parte. Con la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 la loro diffusione comprende oramai quasi tutta la provincia e con il passare degli anni se ne cominciano a vedere le conseguenze.

Gli agricoltori denunciano un incremento vertiginoso dei danni alle produzioni e nel sottobosco delle macchie sono sempre più diffusi i profondi solchi che i cinghiali tracciano alla ricerca di tuberi e radici; salgono in modo esponenziale i capi abbattuti nelle cacciate che sono organizzate dalle associazioni venatorie locali, oramai diffuse a decine e decine in tutta la provincia, che per assicurarsi disponibilità di capi per le stagioni di caccia, ricorrono correntemente ad importanti integrazioni alimentari dei capi presenti nel territorio di loro riferimento e questa pratica incrementa ulteriormente la loro prolificità.

Questa varietà non autoctona di cinghiale, a tutti gli effetti da considerare aliena nel nuovo contesto, si diffonde in modo incontrollato sul territorio anche perché non c’è più il lupo, unica specie in grado di modularne la presenza, ma che dall’inizio del ‘900 è sempre meno presente sul territorio; oggi dell’originale varietà di cinghiale maremmano in pratica son rimaste solo tracce sotto forma di pochi ibridi.

Per la nostra penisola risalgono al 1500 i primi documenti che attestano gli abbattimenti di lupi tramite il ricorso a cacciatori esperti, che si spostano addirittura da regione a regione assoldati dai grandi proprietari terrieri su sollecito dei loro fiduciari territoriali; poi nel ‘900, nel primo dopo guerra, tale attività assume proporzioni notevoli e si ripresenta anche nel secondo dopo guerra, su pressione degli assegnatori dei terreni marginali che la Riforma fondiaria ha loro riservato.

Il lupo in pratica scompare dalla dorsale appenninica ed anche dall’arco alpino, il suo areale è confinato nell’intera penisola a limitati e ridotti ambiti territoriali; nella provincia di Grosseto non viene più segnalato già dalla fine degli anni ’40.

 Il lupo in provincia di Grosseto e l’Operazione San Francesco

Nei primi anni ’70 la popolazione stimata dei lupi nella penisola italiana consisteva in circa 100 – 110 capi, per lo più raggruppati nell’appennino abruzzese ed in parte in quello silano.

A seguito dell’allarme lanciato dal mondo scientifico nazionale ed internazionale, nel 1971 per iniziativa del Parco nazionale dell’Abruzzo, del WWF e dell’Ateneo della Sapienza, prende avvio l’Operazione San Francesco, che ha come scopo ripristinare un livello numerico di sicurezza della popolazione del lupo, per scongiurarne la scomparsa dal territorio italiano e recuperare a questa specie l’areale che aveva nel secolo XIX per tutto l’arco alpino e lungo tutta la dorsale appenninica.

Nello stesso anno il lupo viene tolto dalla lista degli animali nocivi, poi nel 1976 il Ministro dell’agricoltura Marcora ne decreta il divieto di caccia ed infine nel 1977 viene emanata la Legge 27, che ne stabilisce la protezione insieme ad altre specie ritenute di particolare importanza per gli ecosistemi peninsulari.

In quegli anni comincia un lento ma costante incremento della popolazione del lupo in Italia e grazie anche ad una contemporanea maturazione della coscienza ambientalista nazionale la presenza del lupo si consolida scongiurandone il pericolo di una scomparsa definitiva dalla penisola.

Con l’inizio degli anni ‘90 si riaccende ovviamente il conflitto con gli allevatori di bestiame brado e semibrado, in particolare di ovini, conflitto che si era sopito con i drastici e diffusi interventi di abbattimento operati dai lupari fino a pochi anni prima, su commissione delle comunità territoriali ed anche delle amministrazioni comunali.

Ma soprattutto il conflitto si riaccende perché dall’inizio degli anni ’90 inizia una progressiva riduzione dei margini di guadagno dell’allevamento ovino: calano i consumi di formaggio pecorino stagionato, la diminuzione della domanda del prodotto ne fa ovviamente diminuire il prezzo, aumentano i costi di produzione delle unità foraggere e i Paesi dell’est europeo immettono sul mercato forti quantità di latte ovino a prezzi più bassi di quelli dei produttori nazionali.

Gli allevatori sono in difficoltà e non sono più nelle condizioni di considerare le predazioni come un costo facilmente riassorbibile dagli ampi margini di guadagno che l’azienda aveva fino a pochi anni prima.

Peraltro, con il divieto di abbattimento dei cani randagi stabilito con la Legge 281 del 1991 si assiste ad un effetto paradosso: la difficoltà delle amministrazioni comunali a realizzare in breve tempo canili sufficienti a ricoverare tutti i cani vaganti, provoca un incremento del randagismo nel territorio, in particolare nelle zone con presenza di attività agricola e venatoria.

Di conseguenza, negli anni seguenti, in analogia a quello che avviene in altri territori della penisola con vocazione alla pastorizia, come l’Abruzzo, aumentano in modo significativo in provincia di Grosseto le aggressioni alle greggi di ovini, che come è noto sono avviate tradizionalmente al pascolo senza alcuna forma di guardiania, né con pastori e né con cani da difesa, per vari motivi;  il lupo non è più un pericolo quasi da mezzo secolo, l’abigeato (il furto di bestiame) è un fenomeno pressoché sconosciuto nella realtà maremmana e inoltre nella breve, recente storia della zootecnia grossetana, ad esclusione degli allevatori di origine sarda, il gregge è considerato una integrazione al reddito aziendale, per cui le ore-lavoro dedicate a questa attività sono limitate allo stretto indispensabile.

Vengono avviati vari progetti su finanziamento delle amministrazioni locali grossetane e regionali per limitare il fenomeno del randagismo rurale, ma nel frattempo comincia a far sentire sempre più forte la sua pressione il lupo, che oramai ha riconquistato il suo originale areale in tutta la penisola.

Ed è nei confronti dei danni causati da questo predatore che si concentra ovviamente la protesta degli allevatori di ovini di tutta la provincia, protesta che talvolta purtroppo ha raggiunto toni anche violenti, anche perché questi danni si calano in un settore che è già da tempo in forti difficoltà economiche, con utili che si sono ridotti in modo drastico rispetto agli anni ’80.

Peraltro, alle norme nazionali di protezione del lupo si è assommata nel corso degli ultimi anni anche una rigida legislazione europea, che consente agli Stati membri limitatissime scelte autonome, e soprattutto si è diffusa tra tutta la popolazione del nostro Paese una spiccata sensibilità a difesa dell’ambiente e degli animali, recuperando il gap che fino a pochi anni c’era rispetto agli altri Paesi del nord Europa.

Lo sviluppo del turismo collegato all’ambiente

Con la seconda metà degli anni ’80 anche in provincia di Grosseto prendono avvio le prime riconversioni di volumi di strutture agricole in residenze per agriturismo; inizialmente è la ricerca di integrazioni al reddito aziendale, in diminuzione per le difficoltà che incontra un settore agricolo sempre di più in affanno.  Progressivamente, con il passare degli anni e con l’emanazione di norme regionali che hanno incentivato tale scelta, si è assistito ad una vera e propria moltiplicazione degli agriturismi, che in tanti casi sono addirittura divenuti il reddito principale delle aziende agricole del grossetano.  Anche questa è una riconversione di attività che ancora una volta interviene in modo incisivo sulle caratteristiche produttive del territorio e addirittura sul suo assetto ambientale ed urbanistico, oltre che sulle abitudini sociali di chi ci vive.  Ed ancora una volta chi abita questo territorio ha dimostrato grandi capacità di adattamento e di forza nel trovare e percorrere nuove soluzioni per poter ricavare reddito.

In conclusione, al di là di quello che ognuno può pensare come opinione personale, frutto di una più o meno consapevole valutazione del problema delle predazioni alla zootecnia, rimangono i dati di fatto, cioè lo stato dell’arte dei vari fattori che interagiscono con questo problema che affligge gli allevatori, soprattutto di ovini al pascolo.

Proviamo ad elencarli:

  • Per continuare a mantenere quote di mercato, e con margini di guadagno vantaggiosi, il settore produttivo agro zootecnico grossetano necessita di importanti investimenti sulla formazione degli addetti e sulle indispensabili infrastrutture.   È indispensabile pensare ad un articolato progetto di riconversione delle produzioni del comparto agro zootecnico, mediante alternative in linea con le realtà del mercato globale, progetto che tenga conto anche della forte attrazione turistica che la Maremma costituisce e che, soprattutto in funzione di questo brand, punti su prodotti di nicchia e di alta qualità; il territorio grossetano non può in alcun caso sopravvivere ad un confronto sul piano delle produzioni destinate al consumo standard
  • La normativa europea ed italiana individuano l’allevatore come titolare responsabile della protezione degli animali che alleva nei confronti dei predatori e gli allevatori devono essere sostenuti e formati dalle istituzioni per poter far fronte a questo impegno gravoso
  • L’equilibrio dell’ambiente e delle popolazioni animali selvatiche è un fattore molto importante per la sicurezza del patrimonio zootecnico che vi viene allevato, in particolare se allo stato brado e semibrado; devono essere fatti tutti gli sforzi necessari al mantenimento di questo equilibrio.  Il mondo scientifico, in modo unanime, considera il lupo come unica possibilità attualmente percorribile per contenere la diffusione dei grandi mammiferi selvatici sul territorio, cinghiali, daini, caprioli; per ora improbabili, o per lo meno di difficile realizzazione, altri sistemi, come la sterilizzazione chimica dei riproduttori.
  • L’Unione Europea, a seguito di una istruttoria che ne dimostri la necessità, può arrivare eccezionalmente ad autorizzare l’abbattimento di un numero ridottissimo di lupi, come è già successo in Francia ed in Spagna; si parla appunto di poche unità.  Ma soprattutto è la dinamica sociale del lupo che rende inutili gli abbattimenti attuati per diminuire le aggressioni alle greggi, ed anche su questo il mondo scientifico è unanime; o gli abbattimenti assumono le dimensioni di quelli attuati nella prima metà del ‘900, cioè una vera e propria eradicazione della specie dal territorio, impensabile nel nostro Paese, oppure il solo diradamento dei capi mediante alcuni abbattimenti, ha l’effetto paradosso di incrementare la pressione sulle greggi.   
  • La cattura e lo spostamento di esemplari di lupi da territori con allevamenti ovini al pascolo libero ad altri territori senza questo tipo di insediamenti è impercorribile, sia perché la cattura del lupo senza abbattimento è difficilissima, sia perché l’eccezionale mobilità del lupo per la ricerca di prede vanificherebbe rapidamente tale pratica.
  • Devono essere messe in atto tutte le iniziative per tenere sotto controllo e poi eliminare completamente il randagismo canino in ambiente rurale, è un fattore concorrente di un certo rilievo nelle aggressioni alle greggi.

È inevitabile che lo scontro in atto non potrà che sfociare in un confronto tra le parti, confronto che sarà costruttivo solo se si partirà dalla condivisione dei dati di fatto ed anche dal passato della Maremma. 

La conoscenza approfondita delle questioni di solito aiuta molto, in genere unisce o per lo meno avvicina posizioni contrapposte.

https://www.tuttitalia.it/toscana/provincia-di-grosseto/statistiche/censimenti-popolazione/

http://www.byterfly.eu/islandora/object/librib:222173/datastream/PDF/content/librib_222173.pdf

http://www.reteparri.it/wp-content/uploads/ic/RAV0053532_1978_130-133_22.pdf

http://rsa.storiaagricoltura.it/pdfsito/83_4.pdf

https://www.terremarsicane.it/i-lupari-cacciatori-di-lupi/#:~:text=Sola%20difesa%20contro%20di%20essi,possono%20dar%20loro%20come%20compenso.&text=Si%20faceva%20a%20gara%20per,aggirava%20intorno%20alle%2020.000%20lire.

https://terminillo.wordpress.com/2008/12/11/storie-di-lupi-e-di-lupari/

https://www.terremarsicane.it/i-lupari-cacciatori-di-lupi/

https://m.facebook.com/ilmondodeilupi/posts/1104761419576365/?_rdr

https://www.repubblica.it/dossier/ambiente/biodiversita/2020/10/26/news/la_grande_questione_dei_cinghiali-271939812/

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