Contro il pressappoco, contro il sentito dire
L’importanza delle evidenze
Fare servizi pubblici significa programmare, non è possibile spendere risorse inseguendo le istanze del momento (a parte le emergenze). Bisogna programmare nel lungo periodo, così come in quello breve e in quello medio. Non dobbiamo lasciarci prendere dal caso.
Programmare però non si fa inseguendo miti, suggestioni o peggio consensi o compiacimenti immediati.
Programmare presuppone osservare, conoscere e farlo approfonditamente. Si può decidere ad esempio di investire sulla de-carbonizzazione della atmosfera della terra, perché conosciamo quanto l’inquinamento da anidride carbonica stia trasformando il clima del pianeta; serve a qualcosa negare che il clima stia cambiando? O imputarlo a fattori non umani e quindi non cambiare nessuno dei nostri comportamenti?
Anche nella programmazione sociale e sanitaria, spesa pubblica molto significativa, l’osservazione dei dati è determinante; in Toscana ogni zona/distretto (cioè l’unità territoriale più piccola per l’esercizio delle funzioni) ha un proprio profilo di salute su cui basare la programmazione di medio periodo (almeno tre anni) inserendola nella programmazione strategica nazionale e regionale. Il profilo di salute (obbligatorio per legge ed uniforme in tutta la Toscana in modo da facilitare il confronto) si realizza attraverso la lettura di indicatori epidemiologici (attentamente raccolti) di ordine sanitario (incidenza e prevalenza di alcune malattie), ma soprattutto di indicatori socio economici che oramai tutta la letteratura in materia indica come decisivi per la salute dei cittadini. Per capirci meglio la condizione economica, le relazioni sociali, il grado di istruzione di una popolazione, sappiamo con certezza che influenzano direttamente l’aspettativa di vita, l’insorgenza della non autosufficienza, l’apparire di malattie per così dire da comportamento (il diabete di tipo due, il dismetabolismo lipidico, le malattie respiratorie da fumo etc.). Sappiamo che oltre il 70% dei determinanti di salute, al netto del patrimonio genetico di ognuno, sono dovuti a condizioni sociali, comportamenti individuali, comportamenti pubblici. Tutto questo lo afferma l’Organizzazione Mondiale della Sanità da decenni e tutti gli studi vanno in questa stessa direzione. Osservare quindi, enumerare, verificare, non c’è altra strada: non funziona il pressappoco e è deleterio il sentito dire.
Nel tempo vorrei presentare alcune di queste evidenze e fare qualche valutazione.
Cominciamo oggi con alcuni dati socio demografici: Indice di vecchiaia, tasso di natalità, percentuale di ultra settantacinquenni e grandi anziani.
Questi dati, sono significativi per lo stato di salute di una popolazione? Certo, ma sono soprattutto indispensabili per programmare i servizi e cercare di anticipare i fenomeni. Una popolazione che vede aumentare il numero dei giovani rispetto al suo totale, necessiterà, per esempio, di più servizi educativi relativi ai comportamenti individuali; una popolazione che invece invecchia, richiede progressivi investimenti nei servizi di assistenza, è ovvio. Ma il tasso di vecchiaia, così come altri indicatori demografici hanno anche relazioni meno evidenti, ma non meno significative per l’esito di salute di una popolazione.
Osserviamo l’indice di vecchiaia della zona distretto grossetana: mediamente l’indice si attesta oltre il valore di 250. Cosa significa?
L’indice di vecchiaia si definisce statisticamente come il rapporto percentuale tra popolazione anziana (65 anni ed oltre) e popolazione giovane (da zero a 15 anni). Valori pari a 100 indicano una comunità stabile, dove il flusso di nuovi giovani pronti ad entrare nel mondo produttivo e sociale, eguaglia il flusso di chi ne esce, mentre un valore sopra 100 indica una popolazione che tende ad invecchiare e rappresenta il peso (socio economico e assistenziale) di cui le nuove generazioni dovranno farsi carico. Nella zona socio-sanitaria grossetana (quella che comprende cioè la costa, da Grosseto a Follonica, le aree interne collinari con i comuni medio-grandi da Massa a Roccastrada e le aree interne montane comprese quelle del Monte Amiata), l’indice di vecchiaia, si è detto, supera 250. Significa che per ogni giovane ci sono 2,5 anziani di cui questo giovane dovrà virtualmente farsi carico con il proprio lavoro. L’indicatore del resto non è omogeneo in tutta la zona; è un po’ più basso sulla costa (ma sempre ampiamente sopra 100 che rappresenterebbe l’equilibrio) e raggiunge punte di oltre 300 sul Monte Amiata.
Certamente l’indice di vecchiaia è un indicatore grossolano che non spiega subito le cause del fenomeno; per esempio, l’aumento della popolazione anziana potrebbe anche dipendere da uno straordinario aumento dell’aspettativa di vita. Nel nostro caso però l’aspettativa di vita alla nascita è buono, ma non è affatto superiore alla media regionale, anzi è un pelo sotto le aree migliori della Regione, mentre assai negativo è il tasso di natalità, altro significativo indicatore che rappresenta il rapporto dei nati vivi rispetto alla media annuale della popolazione.
Il nostro tasso di natalità registrato nel 2022 è di 5,7, cioè in quest’ anno sono nati solo 5,7 bambini ogni 1000 residenti! Pochissimi, meno della media regionale ma soprattutto in un trend molto negativo; l’indice sta peggiorando e lo sta facendo da tempo. Un altro indicatore significativo è la percentuale di ultra-settantacinquenni sul totale della popolazione (nel 2022 era il 14,6%), molto alto, è in costante crescita e di per sé questa sarebbe una notizia positiva (si vive di più, ma poi vedremo se le condizioni di vita negli ultimi anni saranno uguali per tutti); il problema è che la crescita percentuale degli anziani (e dei grandi anziani) è in riferimento ad una popolazione che non cresce più in termini assoluti, anzi è in flessione rispetto agli anni precedenti. Insomma: la popolazione residente regredisce, la percentuale degli anziani aumenta, il numero dei bambini neonati diminuisce costantemente.
E’ facile immaginare le conseguenze sociali ed economiche di questa tendenza, ma restando nell’ambito socio-sanitario, programmare significa calcolare cosa succederà tra 20 anni e quindi fare qualcosa per invertire o perlomeno rallentare questi fenomeni.
Abbiamo visto le conseguenze di una pandemia virale che si è manifestata in modo repentino e massiccio su tutta la popolazione e abbiamo reagito con misure straordinarie, ma non dobbiamo distrarci rispetto all’espandersi della non autosufficienza che non è un fenomeno repentino, ma costante, non dagli effetti immediati, ma nel tempo; non possiamo sottovalutare questo fenomeno semplicemente perché oggi, pur arrancando ancora lo possiamo gestire; non dobbiamo sottovalutarlo ignorando dati evidentissimi, non giriamo gli occhi da un’altra parte.
Vedremo in altri articoli come sarebbe indispensabile non solo rafforzare i servizi, ma soprattutto come evitare l’insorgenza di patologie croniche ed invalidanti con i nostri comportamenti e come integrare i servizi che abbiamo con idee nuove. Ho recentemente seguito il percorso di laurea di una giovane studentessa magistrale nell’Università di Siena a cui ho fatto da relatore e nella sua tesi la studentessa ci propone un approccio educativo intergenerazionale per diminuire la solitudine, fenomeno foriero di tanti disagi e l’insorgenza di malattia, sia nei giovani che negli anziani. Questa idea ve la presenterò.
Oggi fermiamoci ad una constatazione che ci forniscono i numeri: la nostra popolazione diminuisce ed invecchia; abbiamo bisogno di popolazione; di popolazione giovane, di popolazione che sia propensa a fare figli e soprattutto sia in età fertile per farli. Perché allora consideriamo l’immigrazione come il primo dei nostri problemi? Perché invece di accogliere, formare, istruire ed inserire nei cicli produttivi, teniamo i nostri immigrati ai margini, come semplici fardelli forzatamente relegati a manodopera a basso prezzo, da usare in nero, quando non spinti verso organizzazioni delinquenziali (che pagano meglio)?
Domande a cui facilmente si può rispondere con il vantaggio politico che ottiene chi agita un problema oggettivamente inconsistente ma che fa leva sulla naturale paura delle persone verso il nuovo e il diverso. Oltre la propaganda (deleteria propaganda), dobbiamo riflettere su dati di fatto e fare scelte più ragionevoli; forse investire nell’integrazione (integrazione non italianizzazione forzata) conviene più che erigere muri (e costa meno).
Sarebbe opportuno che i sistemi pubblici, ma anche quelli datoriali, facessero un’indagine approfondita sulla manodopera mancante, sulle professioni mancanti, non attimo per attimo, ma con un minimo di prospettiva. Stabiliti i fabbisogni potenziali dobbiamo poi fare un bilancio delle competenze dei giovani immigrati (e saremo sorpresi nel vedere che ne hanno molte di più di quanto si creda). Potremmo quindi indirizzare la formazione per gruppi omogenei, li potremmo poi aiutare ad entrare nel ciclo produttivo, a mettersi in proprio. Trasformare quindi quelli, che oggi appaiono un peso, in fonte di reddito, di tasse pagate, di sostegno per gli anziani (diretto e indiretto)di crescita demografica: far crescere la nostra economia e le nostre comunità.
Ovviamente la prima obiezione (oltre la sostituzione razziale che è semplicemente ridicola) è che questi nuovi cittadini prenderebbero i posti di lavoro dei nostri giovani. Ovviamente i dati ci dicono che non è così: i cittadini giovani sono sempre meno e peraltro non disponibili a svolgere molte delle attività necessarie e anzi propensi ad andarsene da qui, ma anche dall’Italia, in cerca di lavori più qualificati. Produrre lavoro non ruba lavoro a nessuno, innesca trend virtuosi anche per il lavoro di chi si vuole specializzare e ha studiato per farlo. Avremmo tutto da guadagnare, in termini materiali, ma anche morali, se siamo tanto preoccupati di perdere le nostre radici cristiane, comportiamoci da cristiani e di Cristo seguiamo l’esempio, non ci costa nulla, anzi, i dati ci dicono così.
Insomma, guardiamo i numeri, le relazioni tra questi e quelle tra dati e fenomeni, non fermiamoci al … ho sentito dire….
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